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La misura della mia speranza

La misura della mia speranza

Nel 1971, a Oxford, mentre conversava amabilmente con un gruppo di ammiratori, Borges d’improvviso si raggelò: qualcuno aveva fatto allusione alla "Misura della mia speranza". «Quel libro non esiste,» si affrettò a dire Borges al malcapitato «non lo cerchi più». E subito cambiò discorso. Ma il giorno dopo uno studente lo chiamò per smentirlo: quel libro esisteva, e la Bodleiana ne possedeva una copia. «Cosa possiamo farci, María,» commentò lo scrittore rivolgendosi alla moglie «sono perduto!». "El tamaño de mi esperanza" apparve a Buenos Aires nel 1926, secondo volume di saggi dopo "Inquisizioni" (1925), e insieme a quest’ultimo e all’"Idioma degli argentini" (1928) fu ripudiato, tornando ufficialmente in circolazione solo dopo la morte del suo autore. Tracotante di audacia e di speranza, il libro delle furie di Borges regola i conti con la coeva cultura argentina, attacca spavaldamente la pigra immobilità della lingua letteraria e l’ingannevole prestigio delle parole che compongono i versi, celebra la pampa e i sobborghi, il battagliero quartiere di Palermo – con i suoi patios pieni di cielo – e la pura sfacciataggine dei compadritos, i vecchi tanghi e lo spirito criollo portatore di allegria e miscredenza, "La terra viola" di Hudson e gli angeli, unici mostri sopravvissuti – ma soprattutto ci dischiude, tra le schegge di un’insolenza che gli anni provvederanno a temperare, il segreto lavorio da cui nascerà il più indimenticabile Borges.

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