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In Occidente, nella terra del tramonto, «non abbiamo più inizi». Così esordisce George Steiner per interrogarsi sulle maniere in cui le arti, le religioni, la filosofia e la scienza hanno organizzato l’esperienza e la percezione della creazione, dell’invenzione e della scoperta. Se qualche computer può proporre algoritmi che descrivono un mondo «senza inizio» e un universo dal tempo reversibile, l’intelletto umano, probabilmente fino ai livelli più profondi del preconscio, continua a interrogarsi sull’esordio. La ricerca del punto zero in astrofisica e delle fonti iniziali della vita organica in biologia ha una controparte nell’esplorazione della psiche umana. I bambini cercano di scoprire i fatti o i miti della nascita. L’enigma del nulla e del silenzio è da sempre al cuore della filosofia e dell’arte, dalla poesia alla musica. Ma, avverte Steiner, in un’epoca dominata dalla scienza e dalla tecnologia (e non più dalle potenze della religione e delle arti) qualcosa è forse cambiato. Questa mutazione investe i fondamenti del nostro linguaggio e mette in dubbio la credibilità del futuro, il tempo grammaticale della speranza. Grammatiche della creazione pone a confronto i fondamenti della nostra cultura – dalla Bibbia a Platone, da Dante a Shakespeare – con le più recenti ipotesi sul Big Bang, gli sviluppi della matematica, l’ontologia di Heidegger, le liriche di Celan e le esperienze delle avanguardie nelle arti visive e nella musica. Costruisce così una serrata indagine sul mistero della creatività e un’eloquente e drammatica diagnosi del nostro presente.
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