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Nell'aprile del 404 a.C. l'ammiraglio spartano Lisandro condusse finalmente la sua immensa flotta nell'odiato porto ateniese del Pireo, ponendo fine a quella che è passata alla storia come «guerra del Peloponneso».
La città di Atene, un tempo potentissima e ora invasa da profughi, ridotta allo stremo dalla malattia, dalla fame e da ventisette anni di guerra, era alla mercé degli spartani.
Una fine assolutamente inconcepibile solo tre decenni prima, quando Pericle promise la vittoria della democrazia. Non poteva certo immaginare che la sua patria avrebbe perso 80.000 cittadini per la peste o 500 navi affondate tra l'Egeo e la Sicilia. Come si era potuta verificare una situazione così catastrofica? In questo che è forse il suo lavoro più importante, lo storico militare Victor Davis Hanson risponde concentrandosi - come già Tucidide, la nostra principale fonte sulla guerra del Peloponneso - sul «fattore umano» dello scontro. Come hanno combattuto gli ateniesi sulla terraferma, nelle città, nelle campagne della Grecia? Come è stato questo orrendo conflitto per coloro che vi hanno seminato e incontrato la morte? È così che la sanguinosa guerra civile che 2400 anni fa vide fronteggiarsi quasi tutte le popolazioni di lingua greca ci appare non più come un evento bellico sepolto nelle nebbie di un passato lontanissimo, ma come uno dei combattimenti più feroci della storia, non solo antica, nel quale si alternarono battaglie convenzionali, atti di terrorismo, rivoluzioni, genocidi.
Un modello «balcanico» tremendamente attuale che ancora ha molto da dire all'uomo del XXI secolo, se è vero che, come afferma Hanson, «c'è un elemento comune nella guerra, il totale coinvolgimento dell'essere umano, che trascende il tempo e lo spazio».
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