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Introduzione di Gianni Nicoletti
Cura e traduzione di Laura Mazza
Testo francese a fronte
La poesia di Rimbaud raggiunge vertici di straordinaria bellezza. Il poeta «malato», «criminale», «maledetto», si rivela in questi versi un grande «veggente» che trae dal profondo la propria voce, attraverso un programmatico «sregolamento» di tutti i sensi e la trascrive in un linguaggio dai significati stravolti. Riversa così nella scrittura una carica aggressiva che spezza lo schema metrico e sconvolge la lingua nobile della migliore tradizione letteraria, contaminandola con il lessico delle bettole per scandalizzare il lettore «borghese». Prende corpo così la figura di un ribelle incantatore, insofferente a ogni legame, che gioca in ogni strofa gli effetti del proprio disgusto, con tale intensità da decomporre nell’esorcismo verbale l’intera sua dimensione umana e poetica.
«Nelle azzurre sere d’estate, andrò per i sentieri,
punzecchiato dal grano, a pestar l’erba tenera:
trasognato sentirò la sua frescura sotto i piedi
e lascerò che il vento mi bagni il capo nudo.»
Arthur Rimbaud
è uno degli autori più inquietanti dell’Ottocento francese. Nacque nel 1854 a Charleville, una cittadina francese ai confini col Belgio, dove trascorse tutta l’infanzia. Figlio di un ufficiale di fanteria e di una ricca proprietaria terriera, ricevette dalla madre, divorziata dal padre quando il poeta aveva sei anni, un’educazione severa. Poeta raffinato, ironico, ozioso e disordinato amante delle sensazioni, divenne, quasi per un ennesimo atto d’insubordinazione alla norma, «mercante di cannoni» in Africa. Morì di cancro a Marsiglia nel 1891, a soli 37 anni.
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