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Il Nome di Dio e la teoria cabbalistica del linguaggio

Il Nome di Dio e la teoria cabbalistica del linguaggio

Per tutte le concezioni mistiche del linguaggio, dalle metafisiche orientali a Jacob Böhme fino al giovane Benjamin, l’essenza del linguaggio coincide con l’essenza stessa del mondo. Ma il primato della parola come luogo sacro prende un rilievo speciale nella tradizione ebraica: e la meditazione sul Nome, anzi sui Nomi di Dio, sul loro fondo impronunciabile e le loro infinite possibilità combinatorie, assume qui i caratteri di una passione assoluta, di cui si è alimentato per secoli il pensiero della «Qabbalah». Illuminando via via magistralmente alcuni dei suoi snodi e delle sue figure maggiori – dalle pagine oscure e pregnanti del «Sefer Yeṣirah» a Isacco il Cieco, a Giqatilla e ad Abulafia –, Gershom Scholem mostra come la mistica ebraica sia tornata instancabilmente sul tema del Nome e del suo rapporto con la rivelazione. Per la «Qabbalah», l’essenza divina si manifesta attraverso dieci emanazioni, congiunte nell’albero delle «sefirot». E le ventidue lettere dell’alfabeto sono uno sviluppo delle stesse «sefirot». Perciò il lavoro sul linguaggio diventa il compito principale del mistico e del teosofo. L’albero dei nomi fa tutt’uno con l’albero delle cose, dove i nomi e le cose sono simili a «fiamme tremolanti» divampate da una sola radice. All’origine di ogni forma linguistica vi è però, appunto, il Nome di Dio, le cui infinite varianti formano l’oggetto, secondo Abulafia, della vera scienza profetica: una vertiginosa «ars combinatoria» capace di ricondurre le lingue profane all’unica lingua santa originaria.

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