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Quando «Vita di poeta» fu pubblicato, nell’autunno del 1917, Hermann Hesse lo recensì subito. Nel suo articolo si leggevano le seguenti parole: «Questo Robert Walser, a cui già dobbiamo tanta bella musica da camera, suona in questo nuovo libretto in modo ancora più puro, ancora più dolce, ancora più alato che nei precedenti. Se scrittori come Walser appartenessero agli “spiriti guida”, non ci sarebbe più guerra. Se Walser avesse centomila lettori, il mondo sarebbe migliore». Appare e scompare in questo libro, sotto sempre nuove spoglie, il personaggio di un giovane vagabondo, che ama le lunghe camminate e guarda il mondo con stupore. Talvolta dorme sulle panchine o in misere locande. Talvolta osa mettere piede, con la sua innocente insolenza, in locali di lusso. Talvolta si rivolge, con devota galanteria, ad affascinanti figure femminili. Gli capita anche che le mutevoli autorità del mondo, quali un capocameriere o un poliziotto, lo sottopongano a severe reprimende. E ogni volta il giovane vagabondo risponderà con amabile eloquenza. Non c’è nulla di più allarmante, in Walser, di queste insistenze sulle maniere soavi, e perfino vezzose: è lì che sentiamo la prossimità della follia. Un immenso disordine è a portata di mano, ma tanto più il giovane vagabondo continuerà ad avanzare con il suo passo elastico, avventato, con l’incoscienza di chi sa troppo e vuole soltanto celare ciò che sa dietro ampi arabeschi di parole. Ogni volta, ciò che Walser ci racconta è come l’avvio di un «Bildungsroman», di un «romanzo di formazione»: ma è una formazione che si tronca subito, per ricominciare poi da capo, con una nuova storia. Il modello segreto, per Walser, non è lo svagato perdigiorno di Eichendorff né il Wilhelm Meister di Goethe, avido di assaporare il mondo. È piuttosto il disperato Lenz di Büchner, che vaga abbacinato, fuggendo qualcosa che lo ha già, per sempre, colpito. Ma, sulla via della scomparsa totale, qui ancora Walser vorrebbe fermarsi al penultimo passo, per quell’amore che pure la vita continua a ispirargli. Allora vagheggia un’esistenza minima e nascosta, come può essere quella di un bottone. E appunto a un bottone Walser rivolge in queste pagine un’appassionata esortazione, che è quasi la sua regola di vita: «Che tu non ti dia alcuna importanza, che tu sia, o almeno sembri essere, tutt’uno con la missione della tua vita, e ti senta interamente consacrato a quel tacito adempimento del dovere che si può chiamare una rosa dallo squisito profumo, bella di una bellezza che è quasi a se stessa un enigma, profumata di un profumo del tutto disinteressato perché non è altro che il suo destino».
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