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L’esordio di Giuseppe Berto sulla scena letteraria avviene nel dopoguerra: Il cielo è rosso, uscito nel 1947, narra la crudeltà del conflitto e la degenerazione morale e materiale che ne deriva. Ma il primo vero romanzo dello scrittore risale ad alcuni anni prima, a guerra ancora in corso: è nel campo di prigionia americano di Hereford, Texas, che Berto compone Le opere di Dio, pubblicato poi soltanto nel 1948. È un romanzo breve scritto all’insegna di un «inconsapevole approccio neorealistico», come spiega lo stesso Berto nel testo che, a partire dalla seconda edizione, sempre lo precederà. Se ne Il cielo è rosso si narrava di un gruppo di ragazzi che si arrangia a vivere fra le rovine di una città distrutta, ne Le opere di Dio sono le vicende di una famiglia di sfollati a occupare la scena. Poche le figure, ed essenziali: il capo famiglia Filippo Mangano, sua moglie, la figlia Effa, il figlio Nino, una nuora – la Rossa – e un nipote, il piccolo Filippo. La loro cascina è minacciata dalle bombe, dall’avanzare degli Alleati da sud, quando decidono di partire. Caricate le loro povere cose su un carretto, atteso il sorgere della luna, vanno. È l’inizio di una «corsa – a casaccio, a perdifiato – contro la morte», come la definisce Giulia Caminito nella sua prefazione: un viaggio che ha lo spazio di una notte nel corso della quale la famiglia si disgrega, senza ragione, improvvisamente. Mentre tutt’attorno si fa silenzio, le donne, con la loro forza, con la loro pietà, si assume - ranno il fardello della vita che deve continuare. Quella disperazione, quella compassione rendono ancora oggi Le opere di Dio un apologo senza tempo: testimonianza dell’orrore che colpisce le vittime di ogni guerra, ma anche racconto dolente di un desiderio – insopprimibile, seppure vano – di pace.
Il vecchio e il bambino stettero seduti sulla panca, l’uno accanto all’altro, e non parla - vano. Vi era una grande quantità di cose che il piccolo Filippo avrebbe potuto fare. Ma andare sulle montagne era un fatto troppo nuovo ed interessante, ed il carro fermo davanti alla porta era là per quello.
«Il più grande romanziere italiano del secondo Novecento». Antonio D’orrico
«Giuseppe Berto seppe mostrare affinità più che elettive, naturali, con le avanguardie, assorbì naturalmente stilemi non propri della letteratura italiana». Dino Messina
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