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Kafka e Max Brod si conobbero, non ancora ventenni, nel 1902. Da quel primo incontro nacque un’amicizia che durò fino alla morte di Kafka nel 1924. Fu un rapporto asimmetrico: da un lato un intellettuale – Brod – che andava riscuotendo un crescente successo fino ad apparire agli occhi dei suoi contemporanei una figura di prima grandezza nella cultura praghese di lingua tedesca, dall’altro uno scrittore che viveva con un misto di vergogna ed orgogliosa consapevolezza il proprio straordinario talento. Fu, però, anche un rapporto decisivo per la vita e l’esistenza postuma di entrambi. Senza Kafka, il nome di Brod sarebbe oggi noto solo a pochi specialisti. Senza Brod, l’opera di Kafka ci sarebbe giunta dimezzata: fu infatti lui a tradire, con provvida infedeltà, le volontà testamentarie dell’amico, che gli aveva chiesto di distruggere tutte le sue carte. Le lettere qui raccolte insieme per la prima volta non soltanto documentano con insolita vivezza questa amicizia, ma forniscono anche una chiave preziosa per l’opera e per la biografia di uno dei massimi scrittori del XX secolo. La vita di Kafka non ci appare qui, secondo uno stereotipo che lo stesso Brod ha contribuito a diffondere, come quella di un santo, ma sotto il segno dell’ironia e della leggerezza. In un fitto intreccio di confidenze, aneddoti, riflessioni, Kafka condivide con Brod ogni aspetto della sua esistenza, dalla composizione dei romanzi fino alle sue tormentate storie d’amore. Nelle reciproche incomprensioni, nelle differenze nel modo di guardare alla vita e alla scrittura, la disparità fra i due autori affiora di continuo, tanto che davvero potrebbe sembrare, come osservò una volta Walter Benjamin, che Kafka abbia voluto porre con questa amicizia un punto di domanda accanto alla sua vita. Ma tanto più grande è la tensione che separa queste due esistenze, tanto più luminose le scintille che il genio di Kafka sa farne scaturire. E l’amicizia con Brod è anche il luogo dove poteva manifestarsi un affetto che, come Kafka scrive a Felice Bauer, «ha le sue radici nel profondo, laggiù dove la letteratura ancora non c’è, in quanto vi è di più umano». «Uno scrittore che non scrive è un’assurdità che può provocare la follia. Come stanno, però, le cose con l’essere scrittore? Scrivere è un dolce, meraviglioso compenso, ma per cosa? Nel corso della notte mi è diventato chiaro con l’evidenza di una lezione dimostrativa per bambini: è il compenso per un servizio del diavolo. Questo scendere verso le potenze oscure, questo scatenamento di spiriti legati per natura, gli abbracci ambigui e tutto ciò che ancora può verificarsi laggiù, di cui qui sopra non si sa più nulla quando si scrivono storie alla luce del sole. Forse c’è un altro scrivere, io conosco solo questo, nella notte, ogni volta che la paura non mi fa dormire, conosco solo questo».
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