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«Verso il 1680 lo scrittore inglese John Aubrey mise per iscritto un incantesimo di invisibilità che sembra tirato fuori da una fiaba, e per giunta una particolarmente macabra. Un mercoledí mattina, prima del sorgere del sole, bisogna sotterrare la testa recisa di un suicida insieme a sette fagioli neri. Dopo aver annaffiato i fagioli per sette giorni con un buon brandy, apparirà uno spirito che baderà a essi e alla testa sepolta. Il giorno successivo i fagioli germoglieranno e bisognerà convincere una bambina a coglierli e a toglierli dai baccelli. Uno di questi fagioli, messo in bocca, renderà invisibili. Aubrey racconta che due mercanti ebrei di Londra, non riuscendo a procurarsi la testa di un suicida, ci provarono con quella di un povero gatto ucciso ritualmente. La sotterrarono insieme ai fagioli nel giardino di un tal Wyld Clark, col suo permesso. Il modo in cui Aubrey assapora senza commento il finale quasi comico ci fa pensare che fin dall'inizio fosse scettico sull'esito, perché ci spiega che il gallo di Clark disseppellí i fagioli e li mangiò senza conseguenze. Nonostante il rischio di questi contrattempi prosaici, i testi magici dal Medioevo fino all'inizio dell'Illuminismo danno mostra di una gran sicurezza di sé, per quanto bizzarre possano essere le loro ricette. Certo che la magia funzionerà, se saremo arditi a sufficienza da correre il rischio. Non era solo una trovata «pubblicitaria»: all'epoca c'era una fiducia universale nell'efficacia della magia. Il popolino la temeva e la bramava, il clero la condannava, gli intellettuali e i filosofi, come anche numerosi ciarlatani e truffatori, davano a intendere di conoscerla. È tra queste ricette fantasiose che inizia la ricerca delle origini dell'invisibilità, sia come possibilità teorica che come tecnologia concreta nel mondo reale. Rendere qualcosa invisibile era un tipo di magia, ma che cosa significava di preciso?»
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