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Uno dei testi più belli, significativi e complessi di Frank Wedekind si snoda in un’apparente perfezione e bellezza dei personaggi e dell’ambientazione, e nell’idillio complessivo in cui si svolge la trama, peraltro molto semplice: in un parco, separato dal resto del mondo da alte mura oltre le quali non è permesso vedere nulla, giovani fanciulle vengono educate sin dalla nascita a padroneggiare arti fisiche quali la ginnastica e la danza, e altre attività, come la musica e il canto, escludendo però totalmente lo spirito e ponendo l’accento unicamente sulla perfezione tecnica e corporea.
La protagonista Hidalla passa le giornate ad esercitarsi in compagnia delle altre giovani, e, man mano che passano gli anni, assiste all’arrivo di nuove bambine e alla partenza delle ragazze più grandi, una volta raggiunti i quattordici anni. Questi sono due dei tre soli momenti in cui questo luogo esclusivamente femminile apre uno spiraglio al mondo esterno: il terzo avviene quando le ragazzine vengono portate nel teatro del parco, di notte, per mettere in scena delle pantomime e dei balletti di cui non conoscono e non sanno capire la trama, ma che, al contrario, l’ululante pubblico unicamente maschile comprende perfettamente e assiste con ingordigia.
La particolarità del libro di Wedekind è l'intensità estrema di cui carica la corporeità, il simbolismo quasi folle e maniacale dell'organizzazione sociale e artistica cui accenna, e di cui non si riesce mai a vedere un volto definitivo, e dunque non è possibile darne una interpretazione, se non univoca, almeno unica e coerente.
Un testo misterioso come la storia che viene narrata e trasparente come il suo titolo – “Mine-Haha” è un nome indiano di ragazza che significa “acqua ridente” -. Wedekind ci offre un racconto perfetto: affascinante, inquietante e imperscrutabile, con delle note quasi di sacralità che se, certamente, non significa idealizzazione e rarefazione, cancellazione della sensualità, di certo la porta ad esprimersi a tutt’altro livello, e in modo non consapevole.
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