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Qualcuno se n’è dimenticato: eppure quello fu l’inizio della riscossa. Nel 2003 l’Inter torna tra le prime quattro squadre d’Europa, alla guida di Hector Cuper, il gaucho senza sorrisi, tecnico generoso e letterario. Ma il destino, a quei tempi, amava metterci alla prova. Dopo aver regalato lo scudetto alla Juventus nel maggio 2002, ogni interista di buon senso — può sembrare incredibile, ma ce ne sono — pensava: cosa può esserci di più doloroso? Un anno dopo l’abbiamo scoperto: consegnare un altro scudetto alla Juve e la Champions League al Milan, dopo essere usciti in semifinale senza perdere.Qualunque altra tifoseria si sarebbe abbattuta. Noi, no. La nostra filosofia, in quella stagione emozionante e tormentata, era semplice: bisogna provare a provare, senza paura. Le cose cambieranno, basta crederci. E quando succederà, sarà bellissimo. Di una cosa, oltretutto, eravamo sicuri. Con l’Inter non ci annoia mai. Anche la scalata a quella semifinale di Champions, giocata tutta a San Siro, è stata piena di avventure. L’Inter, ai tempi, sapeva essere crudele, ma non faceva mancare le emozioni. Bobo Vieri ce l’avevamo solo noi; per prevedere Recoba occorreva un cartomante; e Cuper, prima d’essere un allenatore, era un enigma avvolto in un mistero. “Scegliere l’Inter — scriveva allora Beppe Severgnini — è come entrare in un labirinto. Un favoloso dedalo neroazzurro, pieno di sorprese a ogni svolta. Al centro c’è il premio, il tesoro, la gioia che attendiamo. Il problema è: come arrivarci?” Altri interismi non s’illude di suggerire la risposta. Il tifoso con le soluzioni in tasca è una delle figure più patetiche del calcio (non l’unica, per la verità). Ma queste pagine dimostrano perché noi interisti siamo speciali: sappiamo sorridere quando altri saprebbero solo deprimersi, siamo capaci di vedere la luce in fondo al tunnel.
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