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Tutto comincia quando Oriana viene spedita a casa dell'uomo del secolo: Christian Dior. Lei lo aveva già intervistato nel 1949 dopo averlo braccato nella hall di un albergo fiorentino. Dieci anni dopo è a Parigi pronta a non cedere: «Quando gli chiedo perché sia ancora scapolo, mi risponde con voce finalmente decisa: "Mademoiselle, dedico alle donne quattro quinti della mia vita. Quando entro in casa, non voglio più vederle né sentirne parlare". Infatti non ho visto che camerieri». La cultura pop che si fa largo nel mondo risorto dal dopoguerra scopre, insieme ai divi del cinema e del jet set internazionale, anche gli stilisti. Oriana, allora una delle poche donne nelle redazioni italiane, non ha nessun interesse per argomenti e personaggi così frivoli, ma intuisce il potenziale politico delle dichiarazioni anche dei grandi nomi della sartoria, alcuni già transitati sugli scranni del Parlamento come Emilio Pucci. Da Coco Chanel a Yves Saint-Laurent, da Roberto Capucci a Mary Quant, ognuno di questi incontri diventa un'occasione per rileggere il mondo, per mettere a confronto il punto di vista del couturier con quello degli appassionati che si indebitano per acquistare i vestiti della sua linea di moda. «Un tempo la moda la facevano i ricchi e i vestiti indicavano il grado di ricchezza o la posizione sociale. Oggi la moda la fanno le ragazzine, le duchesse vestono come le dattilografe.» È la fine di un'epoca che una giovanissima Oriana racconta con lo stesso talento con cui poi darà voce alle grandi tragedie della Storia.
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